domenica 4 novembre 2012

OMBRE DIGITALI

Una fotografia può essere una gran bugiarda. Tanto più se è ingiallita dal tempo. 
Di per sé l'atto di immobilizzare l'essenza di una persona intrattiene una relazione quanto meno ambigua con la realtà: non sappiamo cosa resta fuori dal quadro e ciò che è inquadrato non può sfuggire al lavorio del tempo.
Ma va bene così: quando ci mettiamo in posa lo sappiamo che la realtà è pi ù complessa e sfumata di un semplice scatto. Chi prepara la messa in scena lo sa ancora meglio.

Resta da capire, quando tutto sarà stato detto e fatto, cosa parlerà di noi al resto del mondo. 
Una vecchia foto? Un video? O qualcosa di più cospicuo, magari un diario? O forse un diario di pensieri affidati al nostro alter ego preferito che, sotto il cappello di uno pseudonimo, saprà esprimere senza peli sulla lingua la nostra vera vita mentale. Una vita che ognuno di noi coltiva e che potrebbe rimanere sempre «segreta e inconfessabile» a meno che non si faccia ricorso alla scrittura letteraria o ad altre forme di narratività. 
Oggi la complessità dell'impresa di assegnare una definizione certa al concetto di identità individuale è acuita dall’influsso di reti digitali e tecnologie della comunicazione sempre più pervasive. 
Il primo romanzo del sociologo Gianfranco Pecchinenda si interroga su quanto sia complicato tratteggiare l’essenza di un individuo e tramandarla.
Come per Ricardo Montero, il nostro passato e il nostro futuro potrebbero essere nelle mani di chi leggerà la nostra storia. O le nostre storie. Dagli in album di famiglia ai diari, dalle comunicazioni epistolari più o meno personali ai pagamenti con carta di credito: tutti frammenti di uno stesso racconto che possono essere equivocati, distorti certo difficilmente ricomponibili nella loro interrelazione, anche da chi di quei frammenti di vissuto è stato il protagonista. L’immaginazione e le protesi digitali ci aiutano a colmare i vuoti della memoria e della conoscenza. 
Il narcisismo confeziona l’insieme ritoccando e immobilizzando fotografie che poi vengono esposte ovunque la società dei consumi comunicativi ci incoraggi a farlo.
Lo streaming delle vite esposte su una bacheca di Facebook percuote le vicende di Essere Ricardo Montero ricordandoci che quei «personaggi senza corpo» hanno sempre a disposizione un varco per invadere la nostra quotidianità. Lo squarcio che lascia passare i piccioni congiunge simbolicamente diversi livelli di consapevolezza della realtà. Il sogno e la realtà sono solo due di questi livelli che coesistono nell’ambito di uno stesso universo.
L’ironia è che il contesto comunicativo contemporaneo, fortemente caratterizzato dallo sharing di massa, celebra un’idea di condivisione piena, di conoscibilità assoluta che seduce l’individuo e le sue cerchie di conoscenti illudendo tutti. Quando il gioco comunicativo lambisce la scala planetaria, le nostre comunicazioni uno a molti possono seguire strade non sempre prevedibili.
Transazioni simboliche codificate, registrate e archiviate dalla rete, sembrano dire agli altri e a noi stessi tutto quello che c’è da dire sul conto di una persona.
Ma in realtà sono solo micronarrazioni, nient’altro che ponti gettati verso un altrove e un altro quando disperatamente in bilico tra la magia della rievocazione e la slealtà della contraffazione.
Come un’ombra che cammina, il sedimento delle nostre attività nel dominio digitale cresce man mano che si accumula il registro di quegli attimi della nostra vita che per scelta o per caso sono stati imprigionati in una registrazione digitale o fissati in una transazione nel web. Il rischio è che ad un certo punto questa ombra digitale, non importa se in buona o cattiva fede, possa parlare per noi senza che ce ne rendiamo conto.
E’ vero che il gioco dei social media può accendere catene di eventi spesso gravide di contaminazioni stimolanti ma all’origine di tutto vi è pur sempre l’immagine di noi che decidiamo di condividere. Proprio la consistenza di quell’immagine primigenia è un problema decisamente irrisolto.
Nell’era delle carte di credito e delle truffe informatiche accettiamo senza fatica l’idea che un’identità possa essere rubata. Nella società dell’informazione, non lascia sgomenti la circostanza che un particolare diario basato su ricordi inventati e informazioni verosimili possa tratteggiare l’esistenza di un personaggio insinuando il dubbio che questi sia reale tanto quanto lo siamo noi. Ma quello che lascia sgomenti in questo romanzo è che un Ricardo Montero possa muoversi alla luce del giorno invadendo il dominio degli esseri in carne ed ossa, pronto a prendere il nostro posto in virtù di informazioni vitali quali i nostri ricordi o i dettagli dei nostri spostamenti, del nostro ménage familiare. Sullo sfondo la privacy sempre più schiacciata dalle esigenze industriali dello sharing di massa.
Essere Ricardo Montero gioca dunque con la paura ancestrale del doppelgänger aggiungendo al racconto sfumature psico-sociologiche proprie dell’evo digitale.
Se la vita sociale dell’uomo contemporaneo è caratterizzata da un continuo balletto tra maschere e palcoscenici diventa sempre più sottile il discrimine che rende nettamente fasulle tutte le persone virtuali che la società ci istiga ad interpretare.
Siamo come quel bimbo che cresce con due nomi alternativi ed è continuamente «costretto a confrontarsi con l’assurdo e irrisolvibile dilemma» di doverne scegliere uno di volta in volta.
Con quale nome farsi identificare? Del resto l'anonimato in rete (o forse possiamo azzardare il neologismo “pseudonimato”) può essere visto come una risorsa: forse l'ultimo baluardo di quella libertà di opinione messa sempre più all'angolo da governi amanti del tecno-controllo e da aziende imbottite di avvocati come candelotti di dinamite.
La spiazzante copertina di Essere Ricardo Montero è forse il miglior assaggio di questo evanescente discrimine tra persone reali e virtuali. Non fa una piega che in copertina ci sia una immagine rubata ingrandendo in maniera apparentemente casuale la copertina di un altro libro. Si tratta della copertina dell’edizione spagnola del romanzo Doctor Pasavento di Enrique Vila-Matas.
In alto si intravede appunto la parte inferiore del titolo Doctor Pasavento. Al centro dell’ingrandimento regna una vecchia foto datata 1924. L'uomo col cappello è Emmanuel Bove, «il più grande tra gli scrittori francesi sconosciuti», ritratto con sua figlia Nora ai Giardini del Lussemburgo di Parigi.
Si tratta di un progetto grafico fuori da ogni seminato ma con una eloquenza che nessuna quarta di copertina riuscirebbe a centrare: c’è la beffarda ironia di un ricalco quasi letterale di parole scritte da altri, eppure rimodellate in contesti inediti; c’è l’apparente casualità di una regia che sembra non esserci ma che invece c’è; ci sono i percorsi della memoria simbolicamente richiamati da questa foto vecchia di quasi cento anni.
Soprattutto c’è la figura di Emanuel Bove che rappresenta citazioni letterarie colte ma nello stesso tempo la singolarità della biografia di uno scrittore osannato dalla critica ma inspiegabilmente invisibile nel corso della storia della letteratura tanto da sembrare un fantasma, quasi un personaggio inventato.
Uomini col cappello, piccioni: esseri liminali, intermediari che ci fanno intravedere altre dimensioni, denudando l’impostura narrativa e la verità onirica da ogni imbarazzo morale, lasciando emergere il cardine antropologico dell’autonarrazione.
Come un incantesimo, il senso di incertezza si propaga dalla copertina a tutti i personaggi che popolano il resto del romanzo Essere Ricardo Montero. Anzitutto Ricardo Montero: un personaggio di finzione che si crede reale e narrandosi cerca di dimostrare la sua assoluta normalità. In fondo egli è un alter ego precario del suo ideatore: vive «brevi momenti, per essere successivamente sostituito da altri come lui». Il suo discorso interiore (e quindi egli stesso) non è altro che una bozza e la sua continua riscrittura rispecchia la visione sociologica di una spossata autocoscienza individuale. A ogni pagina diventa sempre più difficile riconoscere di chi sia la voce narrante e il fatto che la storia sia stata realizzata ricombinando pagine di letteratura classica, scene di film, titoli di opere d’altri, accende un assillante senso di déjà vu.
Il sociologo dei mondi virtuali Gianfranco Pecchinenda sceglie dunque un vertiginoso gioco di specchi per affronta il problema della formazione dell’identità. In fondo Essere Ricardo Montero è la continuazione con altri mezzi del discorso sull’Homunculus in cui si spiegava il rapporto tra il sé e le facoltà autonarrative. Nel saggio Homunculus. Sociologia dell'identità e auto narrazione Gianfranco Pecchinenda scrive: «Autonarrarsi è l'unico modo che conosciamo per delimitare la nostra identità qualificandoci come soggetti agenti». In quel saggio le facoltà autonarrative, così importanti per le teorie sulla costruzione dell’identità, sono evocate, teorizzate, collocate all’interno di un flusso storico che congiunge Omero alle moderne narrazioni video ludiche.
Con Essere Ricardo Montero il sociologo torna su quelle tracce e soddisfa la fantasia estrema di mettere in scena le teorie rendendole avvincenti come un romanzo, surreali come un sogno, sincronizzate con il nascente secolo dell’homunculus digitale, una zona franca che consente lo scatenarsi di quella parte del nostro io più profondo deputato alla rappresentazione e alla divulgazione della nostra identità. Smarcandosi dalla forma-saggio, l’approccio è più libero e creativo, forse addirittura più efficace proprio sul piano didattico.
L’homunculus di Ricardo Montero che riesce ad edificare il sé dando coerenza ad esperienze vissute (o presunte tali), regole di linguaggio e, ovviamente, ambizioni narrative rivela la natura illusoria di un’identità individuale unica e stabile.
Conferendo forma letteraria alle intermittenze e alle irregolarità dell’autocoscienza umana, il sociologo Pecchinenda descrive con ironia quell’ostinato e antropologico equilibrismo chiamato autonarrazione. Cosa succede se un homunculus, normalmente deputato al ruolo di biografo della nostra identità, per una strana mutazione genetica decide improvvisamente di vivere una sua vita autonoma e narrare una sua
verità-identità incarnata da una persona fisicamente autosufficiente? Anzitutto quello che avrebbe da raccontare sarebbe straordinariamente credibile, avendo rovistato per anni ogni piega più nascosta della nostra coscienza.
Ricardo Montero prova disperatamente ad affermare la solidità della sua identità documentando un albero genealogico, illustrando meticolosamente i passaggi chiave della storia della sua famiglia.
Commuove quasi la forza con la quale la creatura cerca disperatamente di dimostrare a se stesso e al
mondo la concretezza di una esistenza calcando il nesso storico tra padri e figli e tutto quello che numerosi individui hanno dovuto patire per giungere all'approdo della sua nascita.
In tema di architettura identitaria, l’homunculus Montero sceglie astutamente di scandagliare il luogo e il tempo delle origini. Qui il sociologo che è in Pecchinenda sottolinea come venga giocata la carta dell’appartenenza familiare.
Saranno proprio gli sforzi di Ricardo Montero ad insinuare in noi l’idea che quel «delirio di credersi uno scrittore» alberga in chiunque si ponga delle domande sull’essenza profonda della propria identità.
Ma questo Ricardo Montero ha le ore contate: gli scrittori Emmanuel Bove, Enrique Vila- Matas, e Carlos Fuentes (e in parte anche Borges, Pirandello e Miguel de Unamuno) sono i maestri che hanno ispirato la sua genesi e ora pretendono una spiegazione per gli sfacciati copia-incolla. Gli scherzi letterari e metalinguistici di Gianfranco Pecchinenda hanno un ruolo fondamentale nel definire il lato ironico dell’essere ombra modulando il tema del furto creativo e del rapporto con i padri-mentori in uno sconcertante gioco di scatole cinesi. In ciascuna di queste scatole c’è un homunculus che si dimena.
La mente dello scrittore che crea personaggi (ovvero identità simulate) ha molto in comune con i processi mentali attivati dai movimenti del nostro avatar in un social network. E allora chi è davvero quell’essere che aggiorna il nostro status su Facebook? E quali sono i suoi scopi?
Come Ricardo Montero, l’avventore di un social network è anzitutto un autore di sé e costruisce la sua autonarrazione digitale stratificando e selezionando informazioni che possono essere vere, false o di una sfumatura intermedia tra verità e falsità. Proprio come nel microcosmo di un social network, in Essere Ricardo Montero aspiranti scrittori, persone reali e personaggi di finzione si rincorrono in un vortice metalinguistico in cui l’identità del vero narratore (o la vera identità del narratore) resta sempre ambigua. Le pagine di questo romanzo diventano luoghi dove i personaggi di finzione possono manipolare quei legami che tradizionalmente costituiscono il cemento dell’identità: il corpo, il nome, la propria storia personale e magari il proprio albero genealogico.
Non è forse la facilitazione di questa magia narrativa il vero dono concesso al moderno Narciso da internet e dalle chat room digitali?
Genealogia e tracce digitali lasciate su Facebook: due fili narrativi che in Essere Ricardo Montero vengono accostati per suggerire forse un interrogativo: cosa resterà di Ricardo, del suo creatore, dei suoi antenati, dei suoi lettori? E cosa resta della nostra storia nella Storia? Come verrà ricostruito (se verrà ricostruito) il nostro transito in questo universo e nelle vite degli altri? Nel lungo periodo cosa resterà di ciascuno di noi, guardando appena oltre il perimetro del ricordo dei nostri parenti e amici più prossimi?
Il romanzo sposta gradualmente il fuoco della riflessione sociologica e filosofica verso il nesso identità-narrazione-memoria. In ogni universo narrativo l'identità viene definita per accumulo:
dettagli caratterizzanti che si sedimentano nella memoria di chi scrive e di chi legge. Se la letteratura può essere un modo per sopravvivere ai padri o ai maestri, la narrazione del sé attraverso l'esercizio quotidiano delle protesi digitali della coscienza può essere una strategia (più o meno consapevole) attraverso cui l’individuo cerca di garantirsi la sopravvivenza oltre il transito biologico.
«Sei sicuro di voler disattivare il tuo account?» Gli occhi sbarrati dell'Autore fissano un monitor assillati da un drammatico dubbio: la materia che vediamo di fronte a noi è una semplice coltura narrativa o vera vita? E’ davvero possibile tirare una linea tra i due livelli? Siamo arrivati ad affidare alle macchine i nostri segreti, le nostre memorie, parti sempre più importanti della nostra coscienza.
Lo scrigno digitale è protetto da una password e da una privacy policy: entrambi elementi ridicolmente precari.
Oggetti inanimati e mondi virtuali diventano insospettabili ricettacoli di emozioni, a volte sorprendentemente patetiche e spropositate rispetto alla trivialità del meccanismo di contatto immateriale che le ha generate. Ecco come viene cambiata la nostra vita mentale da un mondo in cui il web costituisce un tessuto connettivo che collega punto a punto: il passato ha a disposizione più tempi per un ritorno; il presente è sempre più carico di elettrizzanti opportunità. Così la fatalità di un addio è meno drammatica, la speranza di un incontro più concreta. La fortuna può essere aiutata.
Essere Ricardo Montero significa vivere fino in fondo tutte le opportunità di questo nuovo mondo che rende precarie le identità. La rete, senza alcun preavviso, può improvvisamente avviluppare un individuo e trasformarsi in colla di sentimenti. Frasi burocratiche come «il tuo account è stato disattivato» vengono estrapolate dal linguaggio delle macchine e diventano vettori di clamorosi sentimentalismi. Nel caso del povero Ricardo Montero, uno straziante grido di dolore.
Ma la macchina Facebook, infaticabile Cupido meccanico, ha sempre da scoccare qualche freccia di riserva lanciando gli ultimi subdoli richiami al lato umano di chi vuole allontanarsi: «Speriamo che
tu possa tornare presto» oppure «Questo amico sentirà la tua mancanza. Inviagli un messaggio».
In futuro, potrebbe capitare che qualcuno vorrà cercarci curiosando tra faldoni che non fanno polvere e fiumi di immagini che non ingialliscono. Nello sguardo dei posteri, nativi digitali, si materializzerà bit dopo bit una visione. Costoro osserveranno noi o il nostro simulacro digitale?
Vedranno qualcosa che parlerà di noi o sarà la nostra ombra tramata dall’homunculus e sfuggita ad
ogni controllo?
La postfazione di Essere Ricardo Montero, affidata alle parole di un altro personaggio di finzione nato prima di Ricardo, è un’ ammonimento rivolto proprio a tutte le possibili persone virtuali, alle nuove generazioni appartenenti a quel «genere di umanità diversa».
«La differenza la fanno proprio il corpo, la faccia, e tutti quegli attributi che tutti loro hanno e che noi invece non abbiamo. […] Il problema, forse, sono oggi proprio queste nuove tecnologie, tutte queste strane diavolerie che tendono ad illudere alcuni dei più giovani tra noi, per poter diventare degli esseri più autonomi, più indipendenti, più liberi e forse anche più veri di quello che potremmo mai essere. 
Il fatto è che noi non siamo e non potremo mai essere degli individui come gli altri. Il frutto della carne è dell’altra carne. Il frutto del pensiero è dell’altro pensiero, tutto qui.»
La postfazione suona piuttosto lapidaria, ma è pur sempre affidata alle parole di un personaggio fittizio. Inoltre la creatura letteraria rivendica una propria dignità, un diritto al riconoscimento dell'identità non certo un corpo fisico.
Tutto sommato il nostro Ricardo Montero avrà forse davvero la sua occasione per imporsi nella imprevedibile e lunghissima partita a scacchi che ogni individuo gioca contro il tempo e l’oblio.
Proprio grazie all’immacolato nitore della trasmissione digitale e alla forza mitopoietica di un buon racconto, ciascun Montero avrà ottime possibilità di sopravvivere al proprio autore-creatore prendendosi una clamorosa rivincita. La voglia di raccontare a tutti i costi è l’unica vera costante antropologica. Non sarà la fine del mondo l’incerta attribuzione di un diario autobiografico.
Prima di congedarsi Ricardo Montero si rassicura così: «essendo stato, non avrei più potuto evitare di essere ancora».
Del resto nessuno può sopravvivere senza la propria ombra, specie se si tratta di un’ombra digitale così ben stagliata.


articolo di Valerio Pellegrini

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